Il contratto di convivenza riguarda persone legate da affetto reciproco e che vivono insieme stabilmente, senza però sposarsi: perché non possono (ad esempio se sono dello stesso sesso) o perché non vogliono. Per le coppie in questa situazione la legge Cirinnà del 2016 ha previsto la possibilità di stipulare i contratti di convivenza. Sono una facoltà, non un obbligo; si può convivere anche senza, ma è consigliato farli se si desidera regolamentare in maniera certa i rapporti patrimoniali derivanti dalla vita in comune. Ad esempio, si potrà decidere il regime di comunione dei beni (altrimenti vigerebbe la separazione, al contrario di quanto accade nel matrimonio), oppure i modi e le quantità in cui ciascuno contribuisce alla vita della coppia, la sorte della casa dove si convive e degli altri proventi e beni acquistati insieme o da ciascuno, in caso di scioglimento del rapporto. Infatti bisogna tener conto che la convivenza, anche se solida e sorta sotto i migliori auspici, potrebbe prima o poi cessare: perciò è meglio stabilire in anticipo e di comune accordo come dividere i beni comuni, in modo da prevenire discussioni, litigi e cause se la convivenza finisce. Per stipulare un valido contratto di convivenza occorrono delle formalità indispensabili: serve una scrittura privata autenticata da un avvocato o da un notaio, che si preoccuperà anche di trascriverli nei registri del Comune.
Sono dei veri e propri contratti perché fissano obblighi che entrambe le parti concordano liberamente tra loro e che poi, una volta sottoscritti, sono tenute a rispettare per tutto il periodo della convivenza e, in alcuni casi, come vedremo, anche oltre.
Si tratta quindi di un vincolo giuridico e non semplicemente morale. I patti e le regole fissate nel contratto di convivenza costituiscono un obbligo che ha forza di legge tra le parti che lo hanno assunto: in caso di inadempimento la parte lesa potrà ricorrere al giudice.
Stipularli è comunque una facoltà e non un dovere: il rapporto di convivenza può svolgersi anche in assenza del contratto di convivenza.
E’ opportuno farli se si hanno beni patrimoniali consistenti oppure quando si vuole regolamentare il menage della coppia tenendo conto di quanto debba essere l’apporto di ciascuno alla vita in comune.
I contratti di convivenza possono essere stipulati da tutti i conviventi di fatto.
Non si tratterà di un’unione civile tra persone dello stesso sesso (che ha una sua specifica disciplina, stabilita dalla stessa Legge Cirinnà) bensì di una situazione in cui due persone maggiorenni – che possono essere anche dello stesso sesso – sono unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale.
Deve esserci, quindi, una situazione di convivenza stabile; non è necessario un periodo di tempo predeterminato, ma occorre la serietà dell’impegno delle parti a convivere in modo duraturo.
La convivenza non deve essere dovuta a fattori contingenti (come ad esempio la necessità pratica di dividere un’abitazione e dunque coabitare), ma dovrà essere motivata da un legame affettivo di coppia tra due persone maggiorenni che sono disposte a scambiarsi reciproca assistenza morale e materiale.
Questa convivenza è una situazione di fatto perché sorge semplicemente con la stabilità del legame; non richiede il requisito formale della dichiarazione all’ufficiale dello stato civile e l’iscrizione al registro delle unioni tenuto dall’anagrafe del Comune.
I conviventi di fatto, per essere tali e dunque per poter stipulare un valido contratto di convivenza, non devono essere vincolati tra loro da rapporti di parentela, di affinità o di adozione e neppure essere impegnati in un matrimonio o un’unione civile.
La legge richiede, perché il contratto sia valido, la forma scritta a pena di nullità.
Non basta una semplice scrittura privata tra le parti: occorre un atto pubblico oppure una scrittura privata autenticata nella sottoscrizione da un notaio o da un avvocato. Questi professionisti attesteranno espressamente che il contratto è conforme alle norme imperative ed all’ordine pubblico.
Questa attestazione è indispensabile: occorre un controllo di un professionista qualificato sulle clausole e sui contenuti del contratto di convivenza che le parti potranno aver predisposto loro stesse e sottoscritto davanti al notaio o all’avvocato.
Le parti, quindi, dovranno andare dal notaio se intendono stipulare il contratto nella forma dell’atto pubblico; potranno invece decidere se rivolgersi a un notaio o a un avvocato se preferiscono redigerlo nella forma della scrittura privata autenticata.
Una volta stipulato il contratto, il notaio o l’avvocato provvederà, entro i dieci giorni successivi, a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi: il contratto sarà così iscritto nei registri dell’anagrafe comunale.
In questo modo chiunque sia interessato potrà verificare se tra quei due soggetti esista una convivenza di fatto registrata e, soprattutto, come questo rapporto sia stato regolamentato nei profili patrimoniali.
A cosa serve questa pubblicità? Ai fini pratici, i conviventi otterranno, ad esempio, il risultato che gli acquisti compiuti durante il periodo di convivenza saranno considerati comuni, se hanno stabilito nel contratto il regime di comunione dei beni.
In questo modo la convivenza di fatto, attraverso i contratti, riceve tutele analoghe a quella delle coppie unite in matrimonio.
Bisogna ricordare che anche le modifiche successive o la risoluzione del contratto devono avere la stessa forma del contratto originario (dunque almeno scritta con sottoscrizione autenticata), altrimenti non saranno valide.
In altri termini, una volta stipulato un contratto di convivenza non sarà possibile modificarlo o eliminarlo se non attraverso un successivo atto stipulato anch’esso per iscritto, con sottoscrizione autenticata oppure con atto pubblico.
La Legge Cirinnà fornisce uno schema esemplificativo di cosa può contenere un contratto di convivenza. Si tratta di un’indicazione: le parti potranno aggiungere anche altro, purché si tratti sempre di rapporti patrimoniali e non di altro genere.
I conviventi potranno decidere il luogo nel quale intendono risiedere; i modi della reciproca contribuzione di ciascuno per fronteggiare le necessità della vita in comune. Si deciderà, cioè, quali e con quante risorse economiche ciascuno dei conviventi vorrà apportare. Nello stabilire ciò, bisognerà tener conto delle sostanze economiche di ciascuno ed anche alle rispettive capacità di lavoro, professionale o casalingo; l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni.
Per i conviventi di fatto il regime predefinito, in assenza di scelte diverse, è quello della separazione, mentre nel matrimonio (o nelle unioni civili registrate) è la comunione.
Con i contratti di convivenza diventa quindi possibile derogare al regime di separazione e scegliere espressamente quello della comunione dei beni, se lo si preferisce.
Stipulando un contratto di convivenza sorgono dei precisi obblighi giuridici a carico delle parti: ciò che esse hanno stabilito nell’accordo sottoscritto diventerà vincolante.
Questo significa che se uno dei due dovesse successivamente violare gli impegni assunti, l’altro potrà rivolgersi al giudice per ottenere ciò che gli spetta ed eventualmente richiedere anche il risarcimento dei danni provocati dall’inadempimento.
I conviventi particolarmente previdenti che hanno un intenso legame affettivo potranno anche prevedere nel contratto di convivenza l’impegno all’assistenza reciproca in tutti i casi di malattia fisica o psichica ed anche la designazione del convivente ad amministratore di sostegno.
Di solito gli impegni assunti nel contratto durano quanto il rapporto di convivenza – che può cessare liberamente in qualsiasi momento – ma ve ne sono alcuni particolari che permangono o addirittura possono prodursi anche oltre la sua cessazione e partendo da essa.
E’ questo il caso degli accordi che abbiano fissato proprio le modalità per definire i rapporti patrimoniali dei conviventi nel caso di cessazione della convivenza: in tale ipotesi il contratto servirà proprio per disciplinare come dividere i beni comuni e separare patrimoni che prima erano uniti.
Oppure, se nel contratto era stata individuata una casa familiare di comune residenza, che però era nella proprietà esclusiva del convivente che in seguito esercita il recesso, si dovrà concedere all’altro un termine non inferiore a 90 giorni per lasciare l’abitazione.